Perennemente in bilico

Quante altre volte riuscirà a guardare nell’abisso.
Quante altre volte si chiederà come non tuffarsi, come vivere perennemente al limite senza precipitare, senza cadere avanti né tornare indietro… come rimanere lì… in bilico.

Sempre lì, a guardare.

Non si fugge da quell’attazione. Ma non si cede.

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A volte, semplicemente, si va avanti. Aspettando.

…che l’abisso diventi il richiamo più forte.

Fine del mondo. Il mio

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Sembra di vivere in una brutta copia di un racconto di Bukowsky.

Interno notte, da una palla di plastica ingiallita, con dentro un babbo natale scolorito proviene il refrain, stonato e fuori tempo di Jingle Bells. Vecchio e stanco, come un monito a più gravi sciagure.

Siamo a tre giorni da Natale.

Il compagno della mia vita è appena uscito dalla porta, sbattendosela alle spalle.  Alla domanda, semplice quanto difficile da fare: “Perché. Ci rivedremo?”. Ha seccamente risposto con un no.

L’abete di plastica, montato a metà sembra un Cristo in croce, con i suoi rami come braccia scarne, in controluce. O forse sono solo gli occhi che trasmettono allucinazioni. Occhi velati. Erano giorni che aspettavano di sfogare un po’ di lacrime e, finalmente, lo stanno facendo.

Non si muove più niente. Si ferma anche la musica – se così si poteva chiamare.

O forse è solo il cervello, che si rifiuta di continuare a far muovere tutto il resto, corpo, anima, chissàpoicosa.

Se il mondo fosse finito ieri, quando doveva farlo, adesso sarebbe tutto a posto. Terminato, definitivo. Finalmente.

Ma oggi no, sono tre giorni da Natale. E il Mondo non è finito. Solo il mio, di mondo.

Otto marzo

È il giorno delle donne. Da stamattina ricevo auguri, fiori, messaggini, come se fosse un compleanno, un qualcosa da festeggiare.
Come se fosse un evento unico, o quantomeno raro.
Mi reputo una donna fortunata, perché non ho bisogno di un giorno all’anno in cui sentirmi libera, o forte, o allegra, o all’altezza della situazione – qualsiasi sia la situazione. Ho avuto il grandissimo culo di essere nata nel continente giusto, in un momento storico giusto e, soprattutto, nella famiglia giusta. Quindi non ho nulla da festeggiare oggi, oggi è un giorno come tanti, come ieri o domani – magari non un lunedì, ma sarebbe un discorso troppo lungo quello tra il lunedì e me -.

Tornando all’otto marzo. Nemmeno quest’anno vedrò donne agguerrite pararsi in strada brandendo cartelli e bruciando i reggiseno, in piazza non ci sono mai andata e non ci andrò certo  oggi. Non vedrò orribili teatrini con spogliarellisti in tanga e carampane assatanate e ubriache che allungano le mani su muscoli abusati – una volta l’anno, come fosse liberatorio -, lascio volentieri gli spettacoli oltre un certo grado di aberrazione a chi ci si riconosce (o diverte).
Non accenderò la televisione per guardare i soliti programmi dedicati a donne celebri – quelle che ce l’hanno fatta, insomma -, né tantomeno all’altro lato, cioè la più parte, quelle che non hanno un diritto umano nemmeno per sbaglio… non guarderò cose che conosco già, tantomeno perché gli spot pubblicitari inframmezzanti i tanto ben fatti programmi saranno ancora, oggi come ieri e domani, a base di “tette-culo-sorrisetto ammiccante”.

Ci sono altre cose che non farò oggi, perché ho la libertà di farlo, quindi non ho bisogno di uno sfogo liberatorio. Per quanto ci sia una giornata dedicata a “noi” non lo considero esattamente un bonus, piuttosto il contrario, perché la strumentalizzazione che ne consegue è sempre lì, in agguato, e domani, per tutte quelle che sono meno fortunate di me, non sarà che un altro giorno che non si meritano.

Un buon “non” otto marzo a tutti.

Del portatore sano di allegria

Si erano conosciuti in un gioco di ruolo: il suo ruolo era quello di rompere le scatole al nemico, il ruolo dell’altro era quello di fare il nemico.
Deboluccio come inizio, se vuoi parlare di un uomo… no, no. Si può fare di meglio.

Lui è.

Ecco, questo è un buon inizio. Perché davvero “è”, uno di quegli uomini che cerchi di far ridere perché vorresti farlo innamorare (d’altro canto fa parte del gioco cercare di sedurre il nemico e un po’ di sana ironia funziona sempre), e poi finisce che ti trovi a ridere da sola davanti a un computer perché appena sorride sei tu a rischiare di lasciarci le piume.

Uno che una ne pensa e cento ne fa… e ne ha ancora in serbo non sai quante; uno solido, impossibile da addomesticare, assolutamente renitente a qualsiasi gerarchia che non sia la “propria”, e che… e che fa anche tanta tenerezza, con quella vocina che si fa via via più dolce quando parla dei “suoi”, delle persone cui vuole bene, di quelli per cui spaccherebbe il mondo alla bisogna. E ti ritrovi a sentirti fortunata, perché ti ha eletta a una “dei suoi”, perché forse per un minuto della sua vita avrebbe potuto perdere la testa per te, perché forse, per un intero minuto della tua vita avresti perso la testa per lui.

Definirlo un cavaliere senza macchia e senza paura parrebbe un po’ azzardato, piuttosto un “portatore sano di allegria”, un giullare serio, un uomo in miniatura dal cuore così grande che ti chiedi come ci possa stare tutto, lì dentro.
Un pazzo quasi sano, una bomba a orologeria col timer senza lancette, un… un non lo so nemmeno io chi è quell’uomo che più lo scopri e più ti scava dentro l’anima, ma senza farti del male.

E poi sei lì, in un posto dove i chilometri non contano, perché il web rende tutto lontano e vicino allo stesso tempo, a vivere qualcosa di totalmente reale in un mondo irreale, a costruire giorno dopo giorno la struttura stessa di ciò che sai di non poter avere, a prepararti l’angolino buio in cui la “mancanza” sembrerà meno pesante, il giorno in cui arriverà – e lo sai che arriverà, arriva sempre, lo dice anche calendario del Frate Indovino… e d’altro canto, ogni volta che ridi, chiacchieri, guardi l’ora e son le 3 del mattino e domani lavori, anche se sai e lui sa, che ognuno ha la propria vita – e sta bene così -, questo tempo assieme all’uomo che “è”, senza bisogno di sembrare chissà cosa… è un buon tempo. E vorresti non finisse mai.

La migrazione

Non ho mai amato le migrazioni, ma a volte si è costretti a far di necessità virtù.

Quindi eccoci qui, passati sulla nuova piattaforma, il template non è ancora a posto, i vecchi post con relativi commenti (quasi tutti funzionanti), le fotine… mancano ancora i link, anche perché son quasi tutti a Splinder, e si sa, tra pochi giorni non esisterà più, quindi ho ancora un pochettino di lavoro da fare.

Comunque, posto che non me n’ero mai andata veramente, son tornata.

Sogno

Di solito si accorgeva di aver sognato, e del genere di sogno, dalle condizioni di cuscini, lenzuola e del letto in generale al momento del risveglio. La maggior parte delle volte sembrava un campo di battaglia con lenzuolo attorcigliato a mo’ di molla, e piume dei cuscini ancora svolazzanti per la camera, ma nessun ricordo lasciato dalla notte. Se di sogno o incubo si fosse trattato, non era dato sapere. Al limite rimaneva una vaga sensazione di pace o angoscia, o magari un rimasuglio di una lacrima, o un sorriso rimasto lì a metà, senza motivo. Ma tutto qui.
Quella mattina però, si svegliò presto, un paio d’ore prima del solito. Il letto era in ordine, il ventilatore a pale girava tranquillo e il traffico cittadino ancora dormiva sotto un cielo che prometteva un’alba azzurrognola di prima estate.
 
Quella mattina aveva un intero film che le girava in testa. Fatto di spezzoni, di scene strane come se il regista non fosse ancora passato in sala montaggio… ma precise e nitide come se si fosse trattato di cose vissute. Di realtà.
Quindi accese il computer, aprì la sua pagina bianca e iniziò a tirar giù appunti.
 
scena 1
cucina. preparativi per un capodanno, però fa caldo, anche se, per qualche motivo sai di essere a Roma. Un’amica sta uscendo dalla porta con una teglia piena di tortellini verdi. La teglia è di quelle da ospedale, in alluminio, circa un metro di lunghezza per 50 centimetri di larghezza e alta una ventina, decisamente grossa, insomma. L’amica è bruna, alta, sottile, con i capelli corti. Sai che è un’amica ma non è nessuno che conosci. L’amica saluta. Esce. Se ne va.
 
 
scena 2
sei in un prato, presumibilmente un parco pubblico o un giardino molto verde con alberi ad alto fusto (la sensazione è che sia Roma, ancora una volta), accovacciata su un plaid tipo pic-nic, un plaid di quelli vecchio stile, scozzese sul rosso. Con te c’è un ragazzone, non bello, capelli corti, alto, grande e grosso, simpatico. Sai chi è nella vita reale, al risveglio sei certa di chi si tratti, ma non è mai stato uno per cui provi alcun tipo di attrazione. E’ un tuo amico del web, e non lo hai mai incontrato nella vita reale. Tu stai sfogliando un libro che probabilmente ha scritto lui. Un libro tipo quelli del National Geographics, con tante illustrazioni di animali, cani, pantere, ghepardi – foto bellissime, delle quali hai un ricordo più che nitido al risveglio -, lo sfogli mentre chiacchierate di amenità che non ricordi. Poi ti volti, vi guardate e lui ti bacia. Il bacio non ti piace.
 
 
scena 3
Roma. Un giro in macchina con un amico, lo stesso amico della scena 2, come fosse solo un cambio di scena. Un giro strano, però: in verticale. Lui guida come un matto, ma non hai paura. Ha una Mini, o qualcosa di dimensione simile. No, proprio una Mini. E ti porta in giro a folle velocità in una città totalmente vuota. Dopo aver percorso qualche stretta via del centro, un paio di vie dietro a Campo de’ Fiori sono riconoscibili, inizia una scalata verticale, in macchina, come fosse un razzo, o una ripresa dal basso in alto con una fotocamera che avvicina lo zoom, dell’Altare della Patria, vedi le scale, poi le pareti e il colonnato, quindi le statue, a pochi centimetri da te. Le statue sono molte di più rispetto al monumento originale, ed è anche molto più alto. Attorno ci sono palazzi di mattoni rossi, la salita non ha nulla di liberatorio dall’oppressione quasi claustrofobica dei palazzi. La luce riflessa sul marmo bianco pulito è abbacinante.
 
 
scena 4
Sei a letto, un letto che non conosci, in casa d’altri. Di fronte a te, sulla porta per un’altra stanza che non vedi, c’è un’anziana cameriera grassa, molto grassa. Con i capelli grigi tirati indietro e un grembiule. Ti guarda e parla mentre infila un cuscino in una federa. Non la conosci e lei non conosce te. C’è una grande finestra aperta, con tende bianche trasparenti che svolazzano. Arriva un colpo di vento più forte e la cameriera rimane in mutande, si vedono numerosi rotoli di adipe bianca, è davvero grassa. Poi si scusa e finisce di rifare il letto nell’altra stanza. Poi arriva il presunto padrone di casa, ha in mano una tazzina di caffè blu-china, la tazzina è senza manico e la tiene con due mani per non far cadere il piattino. Te la porge dicendo: “Non vorrei sembrare inospitale, ma lei cosa ci fa nel mio letto?”. Lui è bruno, mezza età, bassetto, con baffoni neri e capelli ricci tipo il Manfredi della pubblicità – ma più insipido. Arriva il tuo amico delle scene precedenti, portandoti i vestiti. Vi scusate per aver sbagliato casa e ti svegli.

 
 
Le note erano scese giù dirette, come se cervello e mani facessero tutto da soli. Poi si fermò a rileggere. Con calma. Realizzò, con calma, che doveva essere sull’orlo di una crisi nervosa. Ripensò, con calma, a tutto quello che aveva visto in sogno e alle reminiscenze lasciate da qualche libro di psicologia letto in gioventù. E, con calma, uscì a comprare sei scatole di sonnifero.
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L’attesa

Sono due giorni che aspetto e, ogni volta che suona il campanello, guardo la porta del magazzino come se da lì dovesse entrare un principe azzurro.

Sono tre giorni che aspetto e, ogni volta che suona il campanello, guardo la porta del magazzino come se il trasportatore di turno avesse in mano una busta gialla con dentro io so cosa.

Sono quattro giorni che aspetto e, ogni volta che suona quello stracazzo di campanello, guardo la porta del magazzino. Poi lancio astiose occhiate al trasportatore di turno che non ha in mano la busta gialla con dentro io so cosa.

Sono cinque giorni che aspetto. Ma oggi pomeriggio, quando arriverà la busta gialla con dentro io so cosa, la porta del magazzino sarà chiusa e io in vacanza.

Però lo so che arriva. Ho già la poltrona oliata, la bottiglia di vino ed il plaid delle grandi occasioni. Ho persino lavato gli occhiali e tutti e due gli indici (400 pagine da girare non sono poca cosa). Sono pronta. E aspetto.

http://www.ibs.it/code/9788879051842/favaro-erika/tuo-posto-nel.html

Storia di Chupa e dintorni

AVVISO per i consueti fruitori di questo blog: il seguente racconto è dedicato ad amici e conoscenti con i quali condivido un meraviglioso giochino di nome Kingdom of Camelot. Quindi, non vi preoccupate, non sono pazza. Non più del solito, almeno.
e ora taca banda

 
Le origini
Era una notte tiepida di giugno nella tranquilla chat totale, quando Lord Carlone  e Lord Juzzar si ritrovarono a parlare, se fossero avversari o amici al tempo non è dato sapere.
Mentre discorrevano di amenità del tipo “quanti archi ci vogliono per ammazzare il tempo”, o quante balliste per conquistar il cuore di una dama… uno dei due, di punto in bianco esclamò: chuuuu…

L’altro, pensando ad uno starnuto, rispose cortesemente “salute”… ma non di germi si trattava, né di allergia di stagione. Stava per nascere un mostro!

Al “chuuuu…” seguì un repentino “paaaa”, che oltrepassò il buio come fosse una lancia fiammeggiante. Gli altri presenti, dopo un attimo di perplessità, sfoderarono  una massiccia dose di senso dell’umorismo scoppiando un una fragorosa risata. Inconsapevoli che quel grido gutturale sarebbe diventato il loro incubo.

Da quella notte in poi, un intero server si ritrovò sinistri bisbigli al suon di “chuuupaaaa” ed ogni momento di distrazione in cui scappava un “eh?!” in risposta ad una domanda trabocchetto… sortiva una sola, unica conseguenza: l’esser sbeffeggiati dal malefico “chupa”. Il tutto, comunque fu preso con la massima nonchalance, tant’è vero che Juzzar e Carlone, non solo coinvolsero altri nel loro truce gioco, ma poterono persino esportare il loro grido su altri server, e venderne i diritti ad un armaiolo vietnamita, che ne trarrà presto una soap opera.
 
Il presente
Dal server originale, l’ormai mitico “Chupa” venne diffuso in tutti gli altri domini e adottato come grido di battaglia da molti grandi guerrieri. Persino da qualche lady spregiudicata. Poter gridare “chupaaa” ai quattro venti è considerato liberatorio e depurativo dell’ego (cfr Chup Chin, saggio cinese)
 
Vox populi
–       Chupa che ti passa
–       Chi non chupa in compagnia o è un ladro o una spia
–       Chupa è la materia di cui sono fatti i sogni
–       Chi chupa da sé, fa per tre
–       Salvare chupa e cavoli
–       Chi trova un chupa trova in tesoro
–       Il chupa non si mangia
–       Chupa e buoi dei paesi tuoi
–       Il chupa fa le pentole, ma non i coperchi
–       I panni sporchi si chupano in famiglia

Disclaimer
Il “Chupa” non è da considerarsi lesivo della privacy, non è una proposta oscena né costituisce in alcun modo violazione di Leggi o Norme nazionali o internazionali (in caso di controversie: foro competente KoC, seconda stella a destra – o giù di lì)
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Solo un gioco

Tutto partiva da quel vecchio gioco, probabilmente il più vecchio del mondo. Lei lo trovava interessante, le piaceva restare lì a chiacchierare, aveva una voglia matta di scoprire tutto di lui, della sua vita, pensieri, opere e omissioni ma, pur continuando a nascondere qualche domandina tra le pieghe del gioco, si stupiva di quanto poco continuasse a saperne.

Nei mesi aveva messo su un teatrino, aggiungendo pennellate allo sfondo, a giorni colori tenui, altre volte tinte aggressive, in realtà sapeva benissimo che il fine non era sedurlo, era giocare a sedurlo. Era il gioco ad essere il vero e unico protagonista. Non lui, non lei e nemmeno tutto il contorno di persone ed amici… il gioco.
“Fine a sé stesso – un mero gioco”, si diceva rimirandosi le dita dei piedi a mollo nella vasca, per poi controllare se le gambe fossero ancora guardabili da un uomo… giusto perché non si sa mai…

Sì… solo un gioco.
Ma a chi lo voleva raccontare.

Un momento di ricreazione da quella vita un po’ noiosa che si era costruita attorno. Svago, ecco sì.
Eppure li riconosceva i sintomi. Li conosceva bene, si conosceva bene.
Non era pressione alta quella che le faceva sobbalzare il cuore sentendo la sua voce.
“Un gioco, un gioco, un gioco”, continuava a ripetersi come fosse un mantra. Per liberare la mente, per liberarsi da quella palpitazione che non voleva. Perché la metteva in una posizione cui non era abituata. Perché le redini dovevano essere in mano sua, non poteva esser lei ad indossare il morso. Non era divertente così. Rischiava di…

Mise la testa sott’acqua, trattenendo il respiro fino a liberare la mente da tutti i pensieri, fino a quando rimasero solo il battito del cuore e le vene ed i polmoni che urlavano chiedendo ossigeno.
Ma il primo pensiero che le venne in mente, non appena riempito di nuovo i polmoni, fu “massì, è solo un gioco”.

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Desideri

I desideri non li puoi prendere in giro più di tanto. E quando ti si ripresentano per troppe volte conviene assecondarli, altrimenti possono sbranarti il cuore.

…e consumarti l'anima.

(cfr. Salvatore D'Antona su FB)

Sì, lo so, lo so. E' lunedì, un lunedì di cielo grigio e basso e freddino e umido… e già di per sé bisognerebbe starsene a letto e non qui a metter giù frasi intrinsecamente depressive.
Oggi va così. Magari domani ci scappa una bella barzelletta con dentro un inglese, un francese e un tedesco… domani. Appunto.
Perché domani non sarà lunedì.

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